Istanbul
28 gennaio 2010Posted by
Daniele
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Sono passate più di 3 settimane ma ho ancora chiarissime in mente le istantanee del mio viaggio a Istanbul. Non so bene da dove cominciare, tante sono state le novità, le sensazioni, le percezioni di un luogo crocevia di culture e continenti.
Istanbul è stato un viaggio diverso, è stato lo scoprire nuovi scorci, nuove storie. E' stato un qualcosa meritevole di essere visto.
Ecco qua in ordine sparso alcuni flash che voglio fissare su queste pagine.
Comprare un tappeto al Gran Bazar
Il Gran Bazar è un labirinto di negozi al coperto, dove puoi trovare di tutto e dove puoi contrattare su tutto. In pratica ad Istanbul i prezzi esposti non esistono. Chiedi il prezzo e da lì contratti. Ma la stessa cosa fatta per un tappeto è qualcosa di più.
Il venditore mi ha portato nel suo spazio espositivo. Mi ha messo comodo su un divano. Si è iniziato a parlare del più e del meno e intanto si guardavano tappeti, modelli, spiegazioni. Ad un certo punto hanno portato il thè. E si è continuato a chiacchierare amabilmente ed a trattare sul prezzo. E poi si è trovato l'accordo. Una mezzoretta indimenticabile. Ovviamente penso di aver fatto un affare, quando sicuramente l'avrà fatto anche lui. Ma il ricordo di quella scena è spettacolare!
Il thè
Ad ogni ora, ovunque, in ogni dove i turchi bevono thè. Bevanda nazionale. E quello alla mela è strepitoso. Sopra anche un esemplare di carretto di un venditore ambulante ed un cameriere con il tipico vassoio.
Lustrascarpe
Ci sono ancora i lustrascarpe. Un mestiere scomparso da noi ma lì vivo e vegeto. Non ricordo di averli visti da altre parti. A Barcellona ne resistono, a mò di attrazione turistica, un paio sulla Rambla. Ma a Istanbul sono ovunque.
Pescatori
Uno dei ponti principali di Istanbul (il Ponte di Galata) in pieno centro città è pieno ad ogni ora di pescatori. E' stranissimo, sei in pieno centro, con le macchine che attrraversano il ponte e ci sono loro che pescano ininterrottamente. Puoi poi non mangiarti un panino con un bel pesce caldo in mezzo?
Il tram
Avete presente la strada principale pedonale piena di negozi e persone? Ecco, esiste anche a Istanbul. Ma la cosa simpatica è che in mezzo ci passa il tram. Che fa su e giù per un km e mezzo in mezzo alla folla. Da non credere.
Il gettone
Originalissimo il Jeton che funge da biglietto per il tram e la metropolitana. Mai visto prima.
Il ristorante Sarnic
Mangiare in una vecchia cisterna bizantina illuminata dalle sole candele. E con il sottofondo di violino e pianoforte dal vivo. E con buon cibo. Siamo stati così bene che ci siamo andati due sere di fila. Consigliatissimo.
La preghiera
Normalmente le moschee non sono visitabili durante la preghiera. Ma se ti siedi, non ti muovi e sei rispettoso puoi stare all'interno. Abbiamo visto quindi questo ripetere di versi e questo movimento quasi ritmico ora in piedi ora seduti e rivolti verso la Mecca. Suggestivo.
Le moschee
Ovunque. Enormi. Tutte esteticamente simili ma comunque imponenti. Non puoi non accorgerti di essere in un paese a maggioranza musulmana. Ovunque butti l'occhio le vedi con i loro minareti. E le senti. Per noi è stato incredibile sentire il richiamo alla preghiera dei muezzin 5 volte al giorno. La città viene avvolta per 5 minuti dalla voce degli altoparlanti che chiamano alla preghiera. Non puoi sfuggire, i suoni sono forti e rimbomba ovunque il verbo di Allah. Sentite:
Sullo schifo di questi giorni
21 gennaio 2010Posted by
Daniele
A chi è che è venuto in mente di riabilitare Craxi?
Ciao Beppe,ti scrivo perche io e i miei amici nei nostri giri in Africa, ci siamo capitati ad Hammamet, e abbiamo visto la tomba dove, come tutti sanno, il famoso Bettino nazionale riposa in pace.
E allora amen, appunto: che bisogno c'è di resuscitarlo? Perchè le istituzioni devono oggi attribuire riconoscimenti pubblici a un latitante condannato in contumacia da un tribunale di quello che voglio ancora credere essere uno Stato libero e democratico?E poi una domanda: a chi è che è venuto in mente di riabilitare questa persona? Cos'è stata, un'onda popolare? Un sentimento condiviso?
Nossignore, non gliene frega niente a nessuno e meno che meno agli italiani, a chi lavora, alle persone comuni che dai governi di quegli anni hanno ricevuto solo una montagna di debito pubblico di cui ancora oggi portiamo le conseguenze.
No, questa riabilitazione è un'idea della classe politica, ansiosa di sdoganare sè stessa attraverso il nome di quell'uomo, e come al solito, totalmente autoreferenziale e distaccata dalla gente comune.Con una via a Craxi o pagliacciate simili, vedrete quante persone riemergeranno da polverosi e oscuri dimenticatoi, rivendicando le proprie amicizie con i ladri e i disonesti dell'epoca, tutti perdonati dal colpo di spugna di un buonismo imperante.
Sembra che in Italia non ci sia nessun altro degno di ricevere un'onorificenza del genere. Solo di una cosa sono certo, che se qualcuno ha ancora un minimo di senso comune e di purezza d'animo, allora quella targa ovunque l'attacchino, durerà poco.
Caro Roberto,il 31 dicembre scorso, nella mia rubrica sul "Corriere", ho assegnato il premio "Anche no" a Letizia Moratti, sindaco di Milano, "per aver deciso di intitolare una via o un giardino a Bettino Craxi. Scusi, ma non è stato condannato in nome del popolo italiano?".
Quindi il mio pensiero è chiaro. Una via o una piazza per Craxi non saranno "una pagliacciata", come tu scrivi tu; ma neppure una buona idea. E' meglio lasciare il personaggio agli storici. Trascinarlo in una lotta politica postuma, come si sta facendo, non è un bel servizio. Né a lui, né a questa povera Italia, dove il passato non passa mai.
Perché tanti insistono, invece, per la riabilitazione, in occasione del decennale? Perché, riabilitando lui, si riabilita un'intera generazione politica: che è tornata ad avere successo, grazie a Berlusconi e a ForzaItalia/PDL, ma sente rimorsi di coscienza. Alcuni per aver partecipato all'assalto alla diligenza, negli anni Ottanta; altri per non averlo impedito.Un breve riassunto nel bel pezzo di Luigi Ferrarella
Alcuni di costoro provano riconoscenza e stima per Craxi? Sì, certamente. Ha lanciato le loro carriere, ed era una mente di prim'ordine, Ricordo di aver preso in mano, nel 1978, un librettino azzurro che si chiamava "L'alternativa dei socialisti". Perfino a me - ventunenne che non era socialista e mai lo sarebbe diventato - sembrava la cosa più moderna che la sinistra avesse prodotto da anni.
Purtroppo, dietro a quelle idee nuove si muoveva il solito magna-magna italiano. E non riguardava - come provano le sentenze e tendono a dimenticare i protagonisti di allora - solo i finanziamenti ai partiti, ma anche tanti arricchimenti personali.Questo sistema, per cui un km della linea 3 della metropolitana milanese costò 192 miliardi contro i 45 di Amburgo, ha pompato il debito pubblico italiano. "Sotto la guida politica di Craxi - e di De Mita, che oggi non a caso ne canta le gesta- è volato dal 60% al 120% del Pil", come ricorda Salvatore Bragantini.
Certo, c'è stata la scala mobile, Sigonella e altre cose. A dimostrazione che il personaggio è complesso, e va lasciato agli storici. Non ai polemisti, agli amici interessati o ai famigliari, ai quali è crudele chiedere obiettività.Io l'ho conosciuto, Craxi: una lunga giornata su e giù dalla sua auto, durante la campagna elettorale del 1992, quando seguivo tutti i leader di partito e cercavo di scriverne un ritratto. Se interessa, vado a ripescarlo. P.S. Le persone non "riemergeranno da polverosi e oscuri dimenticatoi", Roberto. Sono già riemerse.
Beppe Severgnini
Tratto da Italians
Che tempi... Ve li ricordate?
08 gennaio 2010Posted by
Daniele
Vallo a spiegare, ora. Vallo a dire ad un bambino che ha appena finito di vedere in diretta Manchester- Leeds o Dinamo - Zenit e che ora, mentre i giocatori vengono ripresi alla discesa dal pullman, indugia con lo sguardo sulle inquadrature delle magliette dei giocatori della sua squadra del cuore ripiegate sulle panche degli spogliatoi . Vallo a spiegare ad un bambino che rivede sei volte l'azione di un gol o che spinge un pulsante verde e può godere la meraviglia di tutte le partite in diretta. Proviamoci.
C'era una volta un paese, il tuo, in cui tutto era in bianco e nero. C'era una volta un paese in cui i bambini come te, malati di calcio, aspettavano le sette di sera per vedere una partita in televisione. Che dico, non una partita, un tempo, uno solo. E non sapevano che tempo e che partita degli invisibili potenti avrebbero scelto seguendo imperscrutabili logiche e sofisticati equilibri. Allora, fai uno sforzo gigantesco di immaginazione, i più, come dite voi ora?, "fomentati" vivevano una domenica da reclusi. L'obiettivo era non sapere il risultato degli incontri prima delle sette, per poter vivere in tv l'emozione di quella rifrittura come fosse un pasto appena cucinato. Non si poteva uscire, non si rispondeva al telefono e, soprattutto, si teneva la radio spenta. Perché c'era " Tutto il calcio minuto per minuto".
Provo a spiegarti. Cominciando dal più difficile. Infatti anche quel programma cominciava nel secondo tempo . Si pensava che se gli appassionati fossero stati collegati dal primo minuto non sarebbero più andati allo stadio. Collegati alla radio, non con gli occhi di trentasei telecamere. C'era l'idea che si dovesse proteggere la percezione personale, diretta, fisica delle cose della vita. Non la loro diffusione universale, mediata e attenuata dal racconto e dalla selezione compiuta da registi o giornalisti. E così quegli uomini fortunati che si trovavano- nel sole, nel vento, nel sorriso e nel pianto-a lavorare raccontando calcio erano gli occhi di milioni di italiani. Le loro voci erano un pezzo della vita di tutti. Come i loro cognomi: Bortoluzzi, Ameri, Ciotti, Luzzi, Provenzali. Erano dei grandi giornalisti, dei professionisti che sapevano, con le loro parole, raccontarti qualcosa di irraccontabile. Si può descrivere un quadro? Si può far immaginare un tramonto? Loro guardavano le gambe piccole e nervose di Sivori, la falcata potente di Gigi Riva, la tenace e minuta robustezza di Giacomino Losi e traducevano quelle immagini in parole. Lo facevano immediatamente, senza la possibilità di cancellare e riscrivere. Lo facevano senza che le immagini svolgessero la funzione di fornire il tappeto di base delle conoscenze. Dovevano far sapere cosa stava accadendo e dovevano fornire una emozione. La voce era una tavolozza, i toni erano i colori, le parole le pennellate. Vedi, noi, alla tua età, quando non ce la facevamo ad aspettare le sette di sera eravamo appesi a quelle voci. E ascoltavamo le cronache delle partite dai campi che ci interessavano di meno, sperando sempre che un rumore di folla e poi una voce interrompessero chi stava parlando per fornire l'aggiornamento che aspettavamo ." Scusa Ameri" era l'anticamera di una gioia o di una rabbia tremende. I transistor, che cominciarono a diffondersi poco dopo l'inizio della trasmissione, consentivano che si potesse di domenica vedere gente che improvvisamente si abbracciava per strada o si metteva a ballare. Io ricordo di aver osservato una volta un tifoso deluso abbandonare una piccola radio sulle scale di una chiesa e andare via, forse smadonnando.
I radiocronisti erano dei tipi abbastanza eccezionali, un po' reporter e un po' poeti. Dovevano unire il fiuto della notizia con la capacità di darle forma e intensità emotiva. Erano gente veloce, in un tempo lento. Erano dove noi avremmo voluto essere. Erano in missione per conto nostro. Non avevano volti, nonostante fossero popolari come pochi. Per decenni nessuno ha mai visto il viso di Enrico Ameri e solo la Domenica Sportiva ha fatto più tardi conoscere a chi appartenesse quella voce da basso, arrochita da milioni di sigarette " Nazionali", che era la firma di Sandro Ciotti.
Molti di loro cominciarono con mio padre, nella mitica redazione "Radiocronache" che costituiva l'occhio sul mondo degli italiani, prima che arrivassero le telecamere. Era una squadra di persone selezionata su basi esclusivamente professionali. O eri bravo o a casa. Non potevi mandare un imbecille raccomandato a raccontare l'alluvione del Polesine. Quelle voci non erano una su mille. Erano la storia in diretta, erano in permanente esclusiva. I giornali sarebbero usciti il giorno dopo. Una parola sbagliata poteva fare catastrofi. Raccontavano cronaca e sport, eventi tragici e Olimpiadi. Erano un gruppo di ragazzi , neanche trentenni, che avevano una gigantesca responsabilità sulle spalle. Fu, evidentemente, una scuola importante che cementò tra loro un legame e una amicizia profonda. Sergio Zavoli fu scoperto per le cronache delle partite che faceva nella sua Rimini, cronache che non andavano in onda e venivano trasmesse con le amplificazioni sulla piazza. E così altri. Erano gente speciale. Con una grande motivazione. Io li ricordo nelle foto. Una li ritrae attorno al tavolo di mio padre, un gruppo di ragazzi sorridenti. Un'altra li ferma al giro di Francia con addosso delle tute con la scritta, tutta minuscola, rai. A quell'azienda erano legati da un rapporto di sangue. Se posso dire mi sembra di ritrovare qualcosa di simile oggi nei ragazzi che fanno lo sport a Sky. Almeno sembra così e lì, da Caressa a Marianella a Flavio Tranquillo e tanti altri si è affermato uno stile e un linguaggio del tutto nuovo della cronaca televisiva.
"Se la squadra del vostro cuore ha vinto brindate con Stock, se ha perso consolatevi con Stock". Era una delle prime forme di sponsorizzazione, quando ancora le magliette dei giocatori erano immacolate e aveva fatto un gran discutere la decisione del Torino di stampare una ambigua T maiuscola sul petto. La casacca di Valentino Mazzola profanata con la pubblicità del cioccolato Talmone, che volgarità. Per anni gli ascoltatori di " Tutto il calcio minuto per minuto" si sono chiesti cosa dovessero fare con Stock in caso di pareggio, assai diffuso ai tempi del " catenaccio". Dopo un paio di decenni, la nota ditta di liquori, non insensibile al grido di dolore che saliva dal popolo, aggiunse " se ha pareggiato, sempre Stock". Non originalissimo, ma conclusivo.
Insomma, spero di essere riuscito a farti capire che cosa è stato di meraviglioso "Tutto il calcio minuto per minuto" . Mentre parlavo non hai mai staccato gli occhi dalla piattaforma Wii e dallo schermo Led sul quale compare, nel gioco Pes, il volto perfettamente riprodotto di Totti e tu lo puoi muovere e farti le tue squadre, le tue partite, i tuoi tornei. Che poi vedi in televisione.
Mi guardi strano. Hai ragione tu . Però fammi vendicare in silenzio dei privilegi della tua stagione satolla. Credimi, non puoi immaginare che cosa era l'emozione, abituati ai bianco e nero delle diciannove e alle voci concitate di quei grandi giornalisti, quando si usciva, come in un film di Woody Allen, dal bianco e nero. Se tu mi guardassi, invece di muovere il joystick per far segnare Drogba, vedresti degli occhi lucidi. Sto pensando ad un momento, uno preciso. Quando da bambino andavo allo stadio e salivo gli ultimi gradini prima di affacciarmi alla visione del verde meraviglioso del campo e dell'arcobaleno infinito degli spalti. Quella era la vita a colori e , credimi, non aveva nulla da invidiare al tuo prato elettronico. Ti invidio, ma con nostalgia.
Walter Veltroni (da Repubblica.it)
C'era una volta un paese, il tuo, in cui tutto era in bianco e nero. C'era una volta un paese in cui i bambini come te, malati di calcio, aspettavano le sette di sera per vedere una partita in televisione. Che dico, non una partita, un tempo, uno solo. E non sapevano che tempo e che partita degli invisibili potenti avrebbero scelto seguendo imperscrutabili logiche e sofisticati equilibri. Allora, fai uno sforzo gigantesco di immaginazione, i più, come dite voi ora?, "fomentati" vivevano una domenica da reclusi. L'obiettivo era non sapere il risultato degli incontri prima delle sette, per poter vivere in tv l'emozione di quella rifrittura come fosse un pasto appena cucinato. Non si poteva uscire, non si rispondeva al telefono e, soprattutto, si teneva la radio spenta. Perché c'era " Tutto il calcio minuto per minuto".
Provo a spiegarti. Cominciando dal più difficile. Infatti anche quel programma cominciava nel secondo tempo . Si pensava che se gli appassionati fossero stati collegati dal primo minuto non sarebbero più andati allo stadio. Collegati alla radio, non con gli occhi di trentasei telecamere. C'era l'idea che si dovesse proteggere la percezione personale, diretta, fisica delle cose della vita. Non la loro diffusione universale, mediata e attenuata dal racconto e dalla selezione compiuta da registi o giornalisti. E così quegli uomini fortunati che si trovavano- nel sole, nel vento, nel sorriso e nel pianto-a lavorare raccontando calcio erano gli occhi di milioni di italiani. Le loro voci erano un pezzo della vita di tutti. Come i loro cognomi: Bortoluzzi, Ameri, Ciotti, Luzzi, Provenzali. Erano dei grandi giornalisti, dei professionisti che sapevano, con le loro parole, raccontarti qualcosa di irraccontabile. Si può descrivere un quadro? Si può far immaginare un tramonto? Loro guardavano le gambe piccole e nervose di Sivori, la falcata potente di Gigi Riva, la tenace e minuta robustezza di Giacomino Losi e traducevano quelle immagini in parole. Lo facevano immediatamente, senza la possibilità di cancellare e riscrivere. Lo facevano senza che le immagini svolgessero la funzione di fornire il tappeto di base delle conoscenze. Dovevano far sapere cosa stava accadendo e dovevano fornire una emozione. La voce era una tavolozza, i toni erano i colori, le parole le pennellate. Vedi, noi, alla tua età, quando non ce la facevamo ad aspettare le sette di sera eravamo appesi a quelle voci. E ascoltavamo le cronache delle partite dai campi che ci interessavano di meno, sperando sempre che un rumore di folla e poi una voce interrompessero chi stava parlando per fornire l'aggiornamento che aspettavamo ." Scusa Ameri" era l'anticamera di una gioia o di una rabbia tremende. I transistor, che cominciarono a diffondersi poco dopo l'inizio della trasmissione, consentivano che si potesse di domenica vedere gente che improvvisamente si abbracciava per strada o si metteva a ballare. Io ricordo di aver osservato una volta un tifoso deluso abbandonare una piccola radio sulle scale di una chiesa e andare via, forse smadonnando.
I radiocronisti erano dei tipi abbastanza eccezionali, un po' reporter e un po' poeti. Dovevano unire il fiuto della notizia con la capacità di darle forma e intensità emotiva. Erano gente veloce, in un tempo lento. Erano dove noi avremmo voluto essere. Erano in missione per conto nostro. Non avevano volti, nonostante fossero popolari come pochi. Per decenni nessuno ha mai visto il viso di Enrico Ameri e solo la Domenica Sportiva ha fatto più tardi conoscere a chi appartenesse quella voce da basso, arrochita da milioni di sigarette " Nazionali", che era la firma di Sandro Ciotti.
Molti di loro cominciarono con mio padre, nella mitica redazione "Radiocronache" che costituiva l'occhio sul mondo degli italiani, prima che arrivassero le telecamere. Era una squadra di persone selezionata su basi esclusivamente professionali. O eri bravo o a casa. Non potevi mandare un imbecille raccomandato a raccontare l'alluvione del Polesine. Quelle voci non erano una su mille. Erano la storia in diretta, erano in permanente esclusiva. I giornali sarebbero usciti il giorno dopo. Una parola sbagliata poteva fare catastrofi. Raccontavano cronaca e sport, eventi tragici e Olimpiadi. Erano un gruppo di ragazzi , neanche trentenni, che avevano una gigantesca responsabilità sulle spalle. Fu, evidentemente, una scuola importante che cementò tra loro un legame e una amicizia profonda. Sergio Zavoli fu scoperto per le cronache delle partite che faceva nella sua Rimini, cronache che non andavano in onda e venivano trasmesse con le amplificazioni sulla piazza. E così altri. Erano gente speciale. Con una grande motivazione. Io li ricordo nelle foto. Una li ritrae attorno al tavolo di mio padre, un gruppo di ragazzi sorridenti. Un'altra li ferma al giro di Francia con addosso delle tute con la scritta, tutta minuscola, rai. A quell'azienda erano legati da un rapporto di sangue. Se posso dire mi sembra di ritrovare qualcosa di simile oggi nei ragazzi che fanno lo sport a Sky. Almeno sembra così e lì, da Caressa a Marianella a Flavio Tranquillo e tanti altri si è affermato uno stile e un linguaggio del tutto nuovo della cronaca televisiva.
"Se la squadra del vostro cuore ha vinto brindate con Stock, se ha perso consolatevi con Stock". Era una delle prime forme di sponsorizzazione, quando ancora le magliette dei giocatori erano immacolate e aveva fatto un gran discutere la decisione del Torino di stampare una ambigua T maiuscola sul petto. La casacca di Valentino Mazzola profanata con la pubblicità del cioccolato Talmone, che volgarità. Per anni gli ascoltatori di " Tutto il calcio minuto per minuto" si sono chiesti cosa dovessero fare con Stock in caso di pareggio, assai diffuso ai tempi del " catenaccio". Dopo un paio di decenni, la nota ditta di liquori, non insensibile al grido di dolore che saliva dal popolo, aggiunse " se ha pareggiato, sempre Stock". Non originalissimo, ma conclusivo.
Insomma, spero di essere riuscito a farti capire che cosa è stato di meraviglioso "Tutto il calcio minuto per minuto" . Mentre parlavo non hai mai staccato gli occhi dalla piattaforma Wii e dallo schermo Led sul quale compare, nel gioco Pes, il volto perfettamente riprodotto di Totti e tu lo puoi muovere e farti le tue squadre, le tue partite, i tuoi tornei. Che poi vedi in televisione.
Mi guardi strano. Hai ragione tu . Però fammi vendicare in silenzio dei privilegi della tua stagione satolla. Credimi, non puoi immaginare che cosa era l'emozione, abituati ai bianco e nero delle diciannove e alle voci concitate di quei grandi giornalisti, quando si usciva, come in un film di Woody Allen, dal bianco e nero. Se tu mi guardassi, invece di muovere il joystick per far segnare Drogba, vedresti degli occhi lucidi. Sto pensando ad un momento, uno preciso. Quando da bambino andavo allo stadio e salivo gli ultimi gradini prima di affacciarmi alla visione del verde meraviglioso del campo e dell'arcobaleno infinito degli spalti. Quella era la vita a colori e , credimi, non aveva nulla da invidiare al tuo prato elettronico. Ti invidio, ma con nostalgia.
Walter Veltroni (da Repubblica.it)
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